8 marzo: i talenti delle donne sono una risorsa per tutti

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Dalle figure esemplari del passato, dalle protagoniste contemporanee del mondo della cultura, della politica, della scienza che negli ultimi mesi hanno saputo affermare il loro talento, dalle tante testimoni che quotidianamente lottano per ottenere il proprio riscatto giunge in questo 8 marzo 2020 il contributo alla nascita di una nuova sensibilità che riconosca pienamente il valore delle donne e concorra a scardinare un impianto socialmente riconosciuto, accettato e radicato che le discrimina e le colloca, ancora oggi, in ruoli subalterni, sempre un passo indietro rispetto all’universo maschile.

Il protagonismo delle donne nella vita sociale, nel mondo del lavoro, nella politica rappresenta, oltre a un progresso di civiltà, una ricchezza per il Paese e l’intero sistema economico potrebbe trarne vantaggio. Numerosi studi indicano che il benessere di una a società cresce significativamente con il coinvolgimento attivo delle donne.

Le statistiche dimostrano infatti che, nella maggior parte dei casi, le donne sono più istruite, preparate, disponibili all’innovazione rispetto agli uomini.
A scuola ottengono migliori risultati in ogni ordine e indirizzo: studiano di più, sono più regolari, raggiungono voti più alti.
Le donne italiane in possesso di laurea o altro titolo terziario sono il 34% mentre gli uomini si fermano al 21,7%. Il 55,5% delle studentesse si laurea in corso contro il 50,9% dei maschi, il 24,9% ottiene la votazione massima, solo il 19,6% tra i maschi.
Le donne sono anche maggiormente impegnate nel sociale e più intraprendenti in attività culturali “volontarie”.

Eppure a questi dati, lusinghieri per l’universo femminile, non corrisponde un ritorno occupazionale né il riconoscimento sociale necessario a combattere discriminazioni, disuguaglianze, violenze di genere.
Nonostante il vantaggio nei livelli di istruzione, l’impiego delle donne nel mondo del lavoro resta di gran lunga inferiore e il divario da colmare tra i tassi di occupazione femminile e quelli maschili è di quasi 20 punti percentuali (risultano occupate circa il 53% delle donne tra i 20 e i 64 anni e il 73% degli uomini di pari età).

Le donne guadagnano meno degli uomini e hanno più probabilità di essere occupate in mansioni che richiedono competenze inferiori; tra chi ricopre posizioni manageriali meno di una su tre è di sesso femminile, la rappresentanza politica del genere nel parlamento italiano è la metà rispetto a quella maschile, nonostante le donne costituiscano oltre il 50% della popolazione.

La maternità rappresenta ancora oggi una condizione di discriminazione e si registrano dinamiche occupazionali diverse tra lavoratrici madri e donne senza figli: le prime lavorano meno delle seconde, con differenze più marcate al sud (16% il divario), più contenute al centro (11%) e al nord (10%); sono soprattutto le donne con figli a dover rinunciare a un’occupazione a tempo pieno contro la propria volontà (il 19,5% delle occupate è in “part time involontario” contro il 6,4% degli uomini).
Si calcola che oltre mezzo milione di donne ogni anno al rientro dalla maternità siano vittime di mobbing; un fenomeno che, associato all’inconciliabilità tra occupazione lavorativa ed esigenze di cura della prole, costringe spesso a sacrificare la professione: secondo i dati pubblicati dall’Ispettorato nazionale del lavoro, delle quasi 40 mila dimissioni registrate ogni anno almeno 3 su 4 riguardano le mamme lavoratrici.
Per una donna mantenere un’occupazione e avere dei figli si traduce in un elevato sovraccarico di lavoro, perché alla crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro non corrisponde un altrettanto significativo ingresso degli uomini nel lavoro domestico e di cura che continua a pesare prevalentemente sulle spalle femminili.

Un quadro reso ancora più complesso dall’aumento dell’età pensionabile e dalla necessità di accudimento di familiari, soprattutto anziani, non autosufficienti.

E così le donne per tutto l’arco della loro vita fanno fronte a incombenze che, oltre agli effetti diretti quali interruzioni di carriera, part time, ecc., comportano costi indiretti altissimi in termini di impatto sulla salute e di “buchi” contributivi che pregiudicano i diritti previdenziali e sono forieri di nuove discriminazioni per quanto riguarda l’accesso e l’assegno pensionistico.

Sono dinamiche di cui si parla da anni, senza riuscire a trovare soluzioni e alternative.
È certamente una questione politica, di scelte: mancano gli asili nido, il sistema di welfare è inadeguato e insufficiente, la normativa sui congedi parentali debole e iniqua.
Ma in Italia scontiamo anche un problema culturale, per cui prevale l’idea che i bambini siano “delle mamme” e che il lavoro domestico e di cura siano attività prettamente femminili.

Non bastano palliativi o misure tampone, non serve la politica dei bonus; per rilanciare l’occupazione femminile e la partecipazione attiva delle donne alla vita del Paese occorrono investimenti pubblici nei servizi, in risorse umane, in coesione sociale, in solidarietà; ma ancor più occorre affermare una vera cultura della condivisione, a partire dall’estensione dei congedi di paternità, e dalla responsabilità sociale del lavoro di cura per spezzare il circolo vizioso che condanna le donne a una scelta obbligata tra lavoro, carriera e famiglia e sottrae al Paese le sue risorse migliori.

( fonte FLC Nazionale)