«Vogliamo cambiare musica»

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Il segretario generale della Flc risponde alla lettera del Maestro Stefano Agostini: «Giocheremo la nostra partita per restituire dignità ai lavoratori»

Come non essere d’accordo con quanto scrive Stefano Agostini? Come non essere d’accordo con l’allarme suscitato da musicisti di fama come Accardo, da giovani studenti dei conservatori, dai talenti, ma “precari”, del nostro patrimonio artistico e musicale?

La precarizzazione del lavoro è ormai un fenomeno che ha enormemente colpito un paio di generazioni di giovani, in molti campi, ma nella musica e nell’arte si è allargata anche a coloro che hanno qualche anno in più. Giusto dunque rivendicare, come fa Stefano Agostini, la necessità di dire basta a chiunque consideri il lavoro artistico come ciò che “si può anche non pagare”. Come se si trattasse sempre e solo di un hobby.

Solo in Italia accade a un musicista, o a un attore, o a un poeta, o a un pittore (se non è già arrivato ai vertici della carriera, ma in quel caso la domanda non scatta) di sentirsi chiedere: “sì, va bene, ma che lavoro fai per vivere?”.

Nei grandi Paesi europei, dove insegnare e imparare musica lega chi abita nelle metropoli a chi invece risiede anche nei comuni più piccoli, questa domanda appare un insulto. Perché in quei Paesi chiunque conosce la fatica che occorre per insegnare e imparare il pentagramma e uno strumento musicale, e chiunque sa quanto sia importante, dal punto di vista educativo, coltivarne la passione in una comunità, piccola o grande, conta poco. Perciò l’invito che Agostini ci consegna, di tornare a un passato “glorioso” della musica diffusa ovunque in Italia, altro non è che uno sguardo rivolto al futuro, per essere più europei, più moderni, meno aridi, e meno individualisti.

Cosa è successo in Italia in questi ultimi 30 anni, infatti? A differenza di quanto accaduto altrove, l’ideologia neoliberista diffusa tra gli anni Ottanta e Novanta dalle televisioni berlusconiane, e rilanciata anche dai canali del servizio pubblico, ha sostanzialmente decretato la vittoria di un nuovo modo di concepire la musica, l’arte, la cultura, e in generale il sapere. Questa ideologia è stata spesso denunciata dai teorici della Scuola filosofica di Francoforte: nella società di massa, dove tutto si vende e si compra, non è necessaria alcuna fatica per diventare persone note. L’industria culturale di massa costruisce i nuovi miti, li usa come strumenti del profitto, e poi li butta via, a prescindere dal talento. La proliferazione dei programmi televisivi, con format di derivazione americana, in cui forte è stata la tendenza dello star system a celebrare sé stesso come mondo dorato fatto di privilegi e denaro ha poi fatto il resto. L’Italia era il Paese più fragile da questo punto di vista, proprio per l’invadenza nella mentalità collettiva di quel che negli anni Ottanta e Novanta fu chiamato “berlusconismo”, i cui effetti sono ancora oggi evidenti, e che è stato all’origine, non a caso, dei tagli indiscriminati all’istruzione, alla ricerca, ai conservatori e alle accademie. Poiché ormai si affermava il principio per il quale il “merito” te lo conferisce la audience televisiva, la spesa per scuola, università e alta formazione non poteva che essere considerata superflua, e dunque da tagliare.

La conseguenza di questa diffusa convinzione per cui merito e successo, come conquiste di anni e anni di fatica e studio, potevano tranquillamente essere definiti da categorie esterne al sapere, fu proprio l’abbandono ormai totale di investimenti e risorse pubbliche per orchestre, musicisti, teatri, concerti, spettacoli dal vivo, che non fossero i mega eventi di artisti già affermati. E soprattutto, il controllo su tutto il sistema della produzione culturale, nelle mani di coloro che gestivano anche ingenti profitti televisivi. È così che la musica in Italia diventa, nell’opinione comune, non un lavoro, ma sostanzialmente un hobby, non una professione, ma un divertimento individuale.

E invece è giunto il momento, proprio a partire da una nuova consapevolezza della Cgil, di invertire questo drammatico processo che ha condizionato la mentalità collettiva. È il caso di dire che per la musica, l’arte, il teatro, il cinema, non è più solo questione di rivendicazione contrattuale ma di egemonia culturale. Ed è su questo terreno che noi giocheremo la nostra partita, insieme con tutti coloro che dentro l’arte e per l’arte vivono e condividono passioni ed esistenze.

( dal sito Colletiva.it)