Anche le parole sono segni di sopraffazione se si trasformano in offese e volgarità sessiste. Semplificano la comunicazione e azzerano i contenuti, con l’obiettivo di sempre: colpire e rendere subalterne le donne, con qualsiasi strumento vengano pronunciate
La strada è ancora lunga ma a piccoli passi si cominciano a riconoscere e definire gli aspetti della violenza sessista del linguaggio, con la sua reale portata discriminatoria, rispetto all’uso rivendicativo di chi sostiene, semplificando ad arte, il diritto ad una “libertà di espressione” magari ad uso goliardico tra amici.
È un percorso difficile perché si insinua nella tradizione di relazioni sociali patriarcali, in cui anche l’appellativo volgare per strada era inteso come un apprezzamento: l’uomo cacciatore, meglio se in branco, che colpisce a parole la femmina desiderata. Che questa poi, non gradisse o replicasse alla pari, nemmeno entrava nelle ipotetiche probabilità, perché avrebbe scatenato l’esercizio della forza maschile, indiscussa quanto tribale sul piano di un gioco di stereotipi comportamentali da origine della specie.
Speravamo in un transito della storia, ma nella modernità di amicizie rarefatte dai social e di piazze virtuali in cui trovarsi, l’aggressività viene moltiplicata col pretesto che una tastiera non fa male a nessuno; se l’obiettivo è “donna” il commento sessista appare normale quanto la faccina, come se la pubblicazione di una foto personale contempli necessariamente lo start alla reazione maschia, in una sorta di convenzione da lasciare alla platea dei condivisori.
Alla base c’è sempre il pregiudizio, non cambiato nell’evoluzione dei tempi, che mettersi in mostra abbia il prezzo di scatenare i bassi istinti; condizione che la donna deve valutare, nella colpa implicita della scelta. L’epoca della minigonna provocatrice e del “come eri vestita” negli stupri è lunga a morire.
Ma l’orrore della vendetta sessista verso una donna che non si propone col proprio corpo o coi lineamenti del volto, ma con la consapevolezza delle idee e delle azioni è, forse, ancora più disgustoso.
L’attacco alla volontà di determinazione, soprattutto quando è testimone lei stessa di attivo protagonismo, si trasforma in una indicibile gogna di messaggi e incitamenti osceni, replicati e pubblici, finalizzati solo ad affermare la contrarietà con il potere della sopraffazione: odio gratuito ed oscurantista come copertura di una manifesta inferiorità culturale e sociale.
C’è l’indifferenza di causare un danno e la sottovalutazione di un male che è profondo, sempre, con conseguenze che possono essere devastanti sul piano individuale così da portare la donna ad essere vittima suo malgrado. Ma c’è l’ottusità di altre conseguenze, quelle che frenano i processi sociali che dovrebbero sradicare i conflitti di genere, per segnare nell’interesse di tutti una vera emancipazione dai confini di una tradizione ancora troppo bloccata.
Dobbiamo lavorare in questa direzione, ognuno e ognuna nell’ambito delle nostre competenze, per far emergere un dramma moderno che non è banale malcostume.
L’appuntamento è venerdi 27 novembre alle ore 16.00 con la tavola rotonda “Il peso delle parole: quando linguaggio e stereotipi della comunicazione alimentano i semi della violenza di genere”, da seguire in diretta sul sito della FLC CGIL e di Collettiva.
(Flc Nazionale)